Da tutore della legge e della sicurezza, al carcere. Con accuse pesanti. Associazione a delinquere, corruzione e favoreggiamento a membri di un noto clan. Ma era innocente, come ha stabilito la terza sezione della Corte d’Appello di Napoli il 25 giugno del 2010, dopo tre gradi di giudizio e dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa mesi prima dalla stessa Corte. Assolto perchè il fatto non sussiste. Protagonista dell’ennesima vicenda di errore giudiziario, Luigi Taglialatela, ex funzionario di pg della Squadra anticrimine della Questura di Avellino. E ora l’ex poliziotto andato in pensione nel 2009, mentre attendeva la sentenza che lo avrebbe scagionato, chiede il conto allo Stato. Per l’ingiusta detenzione, il danno morale e biologico subìti, e il danno economico. Perchè sua madre, distrutta dal dolore, si è lasciata morire, sua moglie ha ancora molti strascichi di quello choc. E una delle sue figlie, si è ammalata di anoressia.
Ma soprattutto, quella che era l’immagine di un uomo in divisa rispettabile e perbene è stata offuscata in un attimo. Tanto che dopo la bufera giudiziaria l’uomo non ha voluto più indossarla quella divisa che gli aveva dato tante soddisfazioni prima di quel dolore. Saranno il suo legale, Gaetano Aufiero, insieme all’avvocato Gabriele Magno dell’Associazione Vittime Errori Giudiziari Art.643 ad occuparsi della richiesta risarcitoria nei confronti di Taglialatela, che oggi racconta la sua esperienza del carcere. Lui che da poliziotto il mondo dietro le sbarre lo aveva visto solo per accompagnare o far uscire di galera i detenuti, lui che è stato ammanettato dai colleghi di una vita. “Umiliato e trattato come l’ultimo dei delinquenti”, denuncia oggi, a distanza di 10 anni dall’incubo che ha vissuto. Luigi Taglialatela ricorda come fosse ora la notte dell’arresto.
E’ il 3 giugno del 2002, quando, nel corso di un’operazione che vede coinvolti alcuni agenti del carcere di Avellino accusati di essere corrotti e di rifornire i detenuti di telefoni e droga, l’uomo subisce nel cuore della notte una perquisizione. Sono i suoi colleghi di una vita e volti a lui noti a entrare in casa sua con l’ordinanza di custodia cautelare in carcere, racconta. Allo choc, “si aggiungono mortificazioni: prima di andare in carcere – spiega Taglialatela – uno dei miei colleghi ha visto che mi mettevo il ponte ai denti. E mi ha detto: ‘Cosa hai in bocca?’. Sapeva perfettamente che avevo quel ponte”. E poi l’arrivo nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, con “l’ispezione corporale e l’isolamento in cella di sicurezza per 48 ore – fa notare – senza l’ora d’aria giornaliera a cui avevo diritto. Se uno non si ammazza lì, non si ammazza più da nessuna parte”.
Fin dall’inizio l’allora funzionario di polizia grida la sua innocenza, denunciando una cospirazione contro di lui, dovuta a antichi rancori nel suo ambiente. La sua difesa fa subito notare che l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti non ha nulla a che fare con le accuse rivolte agli agenti ‘corrotti’ del carcere avellinese, che Taglialatela, “non ha mai visto e non conosce”. Gli inquirenti lo accusano di aver diffuso notizie riservate a esponenti del noto clan, come riferito da alcuni pentiti. Ma anche questa tesi, pian piano verrà smontata, come verrà fatto notare che il ‘Gigino’ indicato da un pentito non era lui, ma un suo omonimo che guidava le volanti nel ’98. Mentre Luigi ha smesso di guidare le volanti nel ’94. Dopo i primi 10 giorni di carcere, il 13 giugno 2002 il Riesame stabilisce che Taglialatela deve restare in carcere, addebitandogli però solo i reati di corruzione e favoreggiamento, dunque eliminando quella di associazione a delinquere. In sede di udienza preliminare, il 20 e 29 agosto, viene rinviato a giudizio per i due reati, ma quello che viene considerato il suo “presunto corruttore”, racconta, “non viene rinviato a giudizio” ed esce di scena.
L’ex funzionario resta in carcere fino al 14 luglio del 2003. Il processo di primo grado si conclude il 15 giugno 2004, con una condanna a 4 anni di carcere e 5 anni di sospensione dai pubblici uffici. Si arriva alla prima udienza di appello, il 4 aprile 2007. Nel frattempo, Taglialatela, stanco e stremato, invece di tornare a fare il poliziotto, chiede di essere riformato. Nel 2009 va in pensione, e dopo qualche tempo la terza sezione della Corte d’Appello di Napoli conferma la condanna di primo grado. La Cassazione annullerà quel verdetto con rinvio alla stessa Corte, che il 25 giugno 2010 lo assolve, dopo 9 anni di calvario giudiziario, perchè il fatto non sussiste.
Ma intanto è passato un decennio, e la vita di Taglialatela è cambiata radicalmente. Il dramma del carcere da innocente gli ha lasciato paure, attacchi di panico, frustrazione. Il pensiero di quelle prime 48 ore in cella di sicurezza e senza aria, la sensazione di soffocamento dietro le sbarre sovraffollate, non lo abbandonano ancora oggi. “Ho sempre le gomme in tasca – racconta – perchè se si asciuga la gola mi manca l’aria e non riesco a respirare. E ho anche delle fissazioni: se non riesco a ricordare un nome o qualcosa vado in panico, così mi scrivo le cose per la paura di non ricordare. Una volta ho chiamato mio fratello a mezzanotte e mezzo perchè non mi veniva il nome di un attore americano. Mi mancava l’aria. Per fortuna mi ha detto quel nome e ho ripreso a respirare”. E ancora, la mancanza di qualsiasi diritto e la lontananza dagli affetti, tanto da far vedere ogni cosa da un’angolazione diversa. “Pensi che al funerale di mia madre – rileva l’uomo – ero felice. Perchè mi avevano dato il permesso di uscire dal carcere e ho passato una giornata con la mia famiglia, pranzando a casa. Ancora oggi non riesco a perdonarmi di aver festeggiato dopo il funerale”.
L’ex poliziotto ricorda quella notte di capodanno a cavallo tra il 2002 e il 2003, quando aveva comprato una bottiglia di spumante da stappare a mezzanotte con i compagni di cella. Ma i secondini, “mortificandomi, me l’anno portata all’una di notte – rivela – e per giunta calda. Il carcere i diritti non esistono. E ho imparato che andare in galera non è difficile, lo è molto di più uscirne dopo aver dimostrato la propria innocenza”. Crudo il racconto delle condizioni di detenzione, con il “materasso pieno di croste, il cuscino lurido, tazza e lavandino in condizioni disumane. E il vitto immangiabile. Meno male che il mangiare me lo portava mia moglie”. E poi la denuncia delle sue conversazioni registrate, violando le regole: “Non ero mica al 41 bis”. L’unica nota positiva del carcere, racconta ancora, sono stati i pochi legami stretti “con i più deboli, per cui cercavo di rendermi utile. Si sa, dietro le sbarre sono i più forti a prevaricare. Ma dare una mano a chi ne ha bisogno ti aiuta a non impazzire”.
Valentina Marsella
Dalla divisa al carcere. Assolto dopo 9 anni di calvario giudiziario
Da tutore della legge e della sicurezza, al carcere. Con accuse pesanti. Associazione a delinquere, corruzione e favoreggiamento a membri di un noto clan. Ma era innocente, come ha stabilito la terza sezione della Corte d’Appello di Napoli il 25 giugno del 2010, dopo tre gradi di giudizio e dopo che la Cassazione aveva annullato…