DISEGNO DI LEGGE RECANTE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI REVISIONE DEL PROCESSO A SEGUITO DI SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

RELAZIONE

L’iniziativa legislativa si propone l’obiettivo di introdurre l’istituto della revisione della sentenza, quale straordinario mezzo di impugnazione, da esperire allorquando una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia constatato l’iniquità del processo celebrato in Italia, per la violazione di taluna delle disposizioni di cui all’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848. L’intervento normativo appare necessario, posto che il sistema processuale italiano non prevede specifici meccanismi in grado di porre rimedio alle violazioni delle disposizioni di cui all’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’intervento normativo riflette, anzitutto, l’evoluzione giurisprudenziale in ordine alla efficacia vincolante delle sentenze pronunciate dalla Corte di Strasburgo (articolo 46 CEDU «Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze»), essendosi affermata, progressivamente, la tesi secondo la quale, per gli Stati convenuti, la sentenza di condanna della Corte di Strasburgo pone l’obbligo di adottare sia le misure di carattere generale necessarie volte a prevenire ulteriori casi, sia quelle di natura individuale a carattere ripristinatorio. L’evoluzione giurisprudenziale ha risentito, ovviamente, delle modifiche normative che si sono succedute nel tempo, a livello internazionale, con i consequenziali riflessi interni. I prodromi del cambiamento di rotta si rinvengono, anzitutto, nell’adozione del Protocollo 11 di modifica dell’articolo 46, firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994, ratificato dall’Italia con la legge 28 agosto 1997, n. 296. E ciò perché fu rafforzato con il citato articolo 46, l’obbligo giuridico degli Stati contraenti di

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conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie di cui erano parti, sotto il controllo del Comitato dei Ministri. Peraltro, il Comitato dei Ministri europeo è intervenuto, in maniera sempre più ricorrente, nei confronti degli Stati contraenti e, in particolare, nei confronti di quello italiano, essendo quest’ultimo rimasto del tutto inerte – benché destinatario di pronunce di condanna da parte della Corte – nell’adozione di adeguati strumenti legislativi generali di ripristino della legalità processuale violata. E, invero, già dal gennaio 2000, il Comitato dei Ministri, con la raccomandazione, R/2000/2, indirizzata a tutti gli Stati contraenti, sollecitava il riesame o la riapertura di casi nazionali oggetto delle censure della Corte europea, attribuendosi il potere di verifica del modo, pur del tutto discrezionale, in cui lo Stato destinatario della pronuncia di condanna aveva ritenuto di adempiere, sia con misure individuali, al fine di fare cessare la violazione, sia attraverso misure generali volte a prevenire situazioni illecite similari future. Più in particolare, l’Italia già era stata posta sotto osservazione per la vicenda Dorigo, in relazione alla quale la Commissione europea, con rapporto del 9 settembre 1998 – fatto proprio dal Comitato dei Ministri con la risoluzione ResDH(99)258, adottato nella sua 666^ seduta il 15.4.1999, secondo la procedura prevista dal previgente articolo 32 – aveva dichiarato la non equità del processo in relazione all’articolo 6, comma 3, lettera d), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, attesa l’utilizzazione, ex articolo 513 del codice di procedura penale, di dichiarazioni etero-accusatorie senza alcun contraddittorio processuale. Peraltro, con tre ulteriori risoluzioni interinali (ResDH(2002)30 del 19.2.2002, ResDH(2004)13, del 10.2.2004, e ResDH(2005)85, del 12.10.2005), il Comitato dei Ministri aveva constatato come, fino a quel momento, non fosse stato adottato alcuno strumento tecnico per la riapertura del processo a carico di DORIGO Paolo. Sicché la violazione accertata permaneva con i suoi effetti pregiudizievoli. Lo «stato di osservazione» si è risolto in una mera interlocuzione, solo in ragione dei lavori legislativi allora in corso volti a garantire il rispetto della detta

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decisione (si trattava, al tempo, dei disegni di legge di iniziativa parlamentare n. 1447 e 1992, oggetto di esame congiunto nel corso dell’anno 2003 e, successivamente, n. S-2441, già approvato dalla Camera e in discussione al Senato nell’anno 2004, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo»).

Altra tappa decisiva, più recente, è rappresentata dall’approvazione del Protocollo 14 alla Convenzione, firmato a Strasburgo il 13 maggio 2004, ratificato con la legge 15 dicembre 2005, n. 280, attraverso il quale, si è emendato l’articolo 46 della Convenzione, attribuendo più incisivi poteri di controllo e di impulso al Comitato dei Ministri: tale organo, sia pur a maggioranza qualificata dei due terzi, può investire la Corte della mancata esecuzione di una sentenza da parte dello Stato convenuto, provocandone una pronuncia prodromica ad eventuali sanzioni successive decise dal Comitato stesso (articolo 46, commi 4 e 5, della citata Convenzione).

L’Italia ha recepito senza alcuna riserva tale Protocollo, ratificato con la legge 15 dicembre 2005, n. 280 (cfr. art. 2, «piena ed intera esecuzione è data al Protocollo di cui all’art. 1 …..»), entrata in vigore il 6 gennaio 2006, contemporaneamente ad altro significativo intervento legislativo, rappresentato dalla legge 9 gennaio 2006, n. 12, con la quale, aggiungendo la lettera a-bis all’articolo 5, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, è stato attribuito alla Presidenza del Consiglio l’onere di promuovere «gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato Italiano», anche a mezzo delle opportune comunicazioni istituzionali al fine di sollecitare le iniziative parlamentari sul punto.

L’ennesima manifestazione della valenza endoprocessuale diretta delle pronunce della Corte europea sui casi trattati dalla giurisdizione nazionale si rinviene nel d.P.R. 28 novembre 2005, n. 289, («Regolamento recante

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integrazioni al Testo Unico di cui al d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in materia di Casellario giudiziale»), ove si prevede l’iscrizione nel casellario giudiziale anche della decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo concernente «provvedimenti giudiziali ed amministrativi definiti dalle Autorità nazionali e già iscritti» (art. 1). Si tratta di una innovazione alla quale certamente non può annettersi il significato di rimozione del giudicato. Tuttavia, va sottolineato come, nel parere reso in ordine al citato regolamento, il Consiglio di Stato (Sezione consultiva, parere del 24 ottobre 2005, n. 4304/2005) ha sostenuto che: «ove la giurisdizione interna sia stata esercitata in violazione dei … precetti della Convenzione, il soggetto che da tale cattivo esercizio abbia subito lesione ben potrà far valere nell’ordinamento interno gli effetti, se non pur l’efficacia diretta della pronuncia della Corte …».

Ma la stessa Corte europea si è progressivamente affrancata dalla natura puramente declaratoria e risarcitoria delle sue decisioni e si è espressa nel senso della necessità che al riconoscimento della violazione dei diritti umani da essa accertata consegua un’obbligazione di risultato dello Stato membro, cioè quella di pervenire ad eliminare la violazione dichiarata. Nel solco tracciato dall’importante pronuncia Scozzari e Giunta c/Italia appare opportuno il richiamo alle altre decisioni della Corte europea: 27 febbraio 2001, Lucà c/Italia; Lyons ed altri c/ Regno Unito, n. 15227/03; 23 ottobre 2003, Gencel c/Turchia e 29 gennaio 2004, Tahir Duran c/Turchia in ipotesi di violazioni dell’indipendenza e dell’imparzialità delle Corti di sicurezza dello Stato, ex articolo 6, comma 1, CEDU; 18 maggio 2004, Somogyi c/Italia; 10 novembre 2004, Sejdovic/Italia; Grande Camera Corte europea, Ocalan c/ Turchia, n. 46221/99, § 210, 12 maggio 2005; 2 giugno 2005 Goktepe c/Belgio; Grande Camera Corte europea, 1 marzo 2006, Sejdovic c/Italia.

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In tale rinnovato contesto, legislativo e giurisprudenziale, si collocano alcune recenti, importanti pronunce su casi nazionali, che meglio consentono di inquadrare ed interpretare le ragioni della non procrastinabilità dell’intervento legislativo.


E sotto questo profilo appare utile il richiamo alla sentenza 18 maggio 2004, resa in causa Somogyi c/Italia, ove la Corte, avendo constatato l’inottemperanza all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – per non essere stato il ricorrente messo in grado di esercitare il suo diritto di partecipare al processo, essendo stato giudicato in contumacia e dopo il rigetto dell’istanza di restituzione in termini – affermava la necessità «… di rinnovare il processo a carico dell’interessato ovvero di riaprire la procedura in tempo utile e nel rispetto delle condizioni previste dall’articolo 6 della Convenzione» (§ 86).

Tale passaggio autorizza a ritenere che il destinatario della decisione della Corte europea è lo Stato convenuto e non già il giudice nazionale. Lo Stato italiano, a differenza di altri Paesi europei, quali la Francia, l’Austria, la Germania, il Regno Unito, la Polonia, la Bulgaria, la Svizzera, non si è ad oggi dotato di disposizioni normative che consentano la riapertura o la ripetizione del processo dopo la censura da parte della Corte in ordine alla violazione di un diritto sostanziale riconosciuto dalla Convenzione o alla constatazione di un vizio procedurale che abbia inciso sulla sorte del procedimento. La materia ha formato oggetto di attenzione da parte del legislatore, a partire da alcune iniziative parlamentari del 1998, poi, con i progetti già citati degli anni 2003/2004 e, da ultimo, con il disegno di legge n. 3354 del 3 maggio 2005 d’iniziativa BOREA («Ratifica ed esecuzione del Protocollo 14 alla Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e disposizioni per l’adempimento delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo»). Di tale disegno è stata approvata

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solo la prima proposta in ordine alla ratifica del Protocollo 14, modificativo dell’articolo 46 CEDU (legge 280/2005).

Occorre, inoltre, non trascurare il fatto che alcuni giudici nazionali dell’esecuzione – proprio a causa dell’assenza di un rimedio normativo diretto alla rinnovazione del processo – stanno seguendo un percorso ermeneutico, secondo il quale essi non possono disconoscere gli effetti della decisione di Strasburgo. E ciò perché compito del giudice dell’esecuzione, cui spetta il controllo sulla legalità del titolo esecutivo formatosi nell’ordinamento interno, è quello di valutare la validità del titolo detentivo, anche alla luce di quelle sopravvenienze (come ad esempio la sentenza della Corte europea), che gli potrebbero consentire di escludere la conformità all’articolo 13 Cost. di uno stato di detenzione che consegua ad un processo, sia pur in parte, non conforme ai principi di equità fissati dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Anche la Corte di cassazione, più recentemente, (Dorigo, sentenza dell’1.12.2006) ha sostenuto che «… la prolungata inerzia dell’Italia corrisponde alla trasgressione dell’obbligo previsto dall’articolo 46 della Convenzione di conformarsi alla sentenza definitiva della Corte europea e, quindi, costituisce una condotta dello Stato italiano qualificabile come flagrante diniego di giustizia». Nella medesima decisione la Corte di cassazione, nel sostenere la illegittimità del titolo detentivo, perché sorretto da un processo iniquo, ha osservato come il diritto al nuovo processo sia stato riconosciuto al Dorigo dalla Corte europea in relazione ad una essenziale garanzia dell’imputato (quella di «interrogare o fare interrogare i testimoni a carico») e che la violazione è stata reputata di determinante influenza sull’esito del giudizio. Sicché è stato fissato il seguente principio di diritto: «Il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato, quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la

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condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo».

Tale orientamento, tuttavia, se verrà in prosieguo condiviso da altri giudici dell’esecuzione, è in grado di determinare un’anomala conseguenza: la pendenza di un processo che vanamente attenderà di essere rinnovato, pur in parte, nell’inesistenza di un meccanismo legislativo che assicuri in concreto tale obbligo, a fronte dell’accoglimento dell’istanza di sospensione dell’esecuzione. Occorre, pertanto, interrompere il corto circuito che si è venuto a creare e introdurre un nuovo mezzo di impugnazione che consenta all’organo giudicante nazionale chiamato ad intervenire non solo di valutare la possibilità di ripetizione del processo (ovvero di una parte di esso, limitatamente agli atti per i quali è stata accertata la violazione), ma anche di decidere sulla sospensione dell’esecuzione: di qui la presente iniziativa legislativa.

L’architrave del disegno di legge è costituito dalla concentrazione in capo alla Suprema Corte di cassazione della funzione di filtro dell’ammissibilità dello strumento straordinario della revisione. Del resto già altri due Stati dell’Unione europea hanno optato per tale soluzione. Si tratta della Francia e del Belgio.

La Francia ha adottato la legge n. 516 nel 2000 ed ha attribuito alla Corte di cassazione il compito di valutare l’ammissibilità dell’istanza di riapertura del processo a seguito della decisione della Corte di Strasburgo che ha constatato la iniquità del processo. In particolare, è prevista una Commission de réexamen, composta da sette magistrati della corte di cassazione, chiamata a valutare l’ammissibilità dell’istanza di revisione, quando la Corte Edu ritenga che una sentenza irrevocabile di condanna penale sia stata emessa in violazione delle regole della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul

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giusto processo e, quindi, comporti per natura e gravità conseguenze dannose alle quali l’equa soddisfazione non possa porre rimedio ed esista un nesso di causalità fra tali conseguenze e la violazione delle regole. La domanda di riesame deve essere presentata, entro un anno dalla pronuncia, dal Ministro della giustizia, dal condannato (o dal legale rappresentante o dagli aventi diritto) ovvero dal Procuratore generale presso la Cassazione. La Commission, che può sospendere in qualsiasi momento l’esecuzione della condanna, su 27 richieste presentate ne ha inviate a riesame 10, riconoscendo la possibilità della revisione in occasione della violazione del diritto alla difesa (caso Hakkar, 2000); in violazione del diritto ad essere giudicati da un giudice imparziale (caso Remli, 2001); in violazione del diritto alla difesa di un avvocato (caso Van Pelt, 2002); in violazione del diritto di ricorso in Cassazione (caso Cheniti, Hasane e Kamel Omar, 2002); in violazione del diritto ad un giudizio equo in Cassazione (caso Slimane Kaïd, 2002).

La legge belga è recentissima, del 9 maggio 2007. Essa prevede la riapertura dei procedimenti penali giudicati iniqui dalla Corte europea. La legge, intitolata «Loi modifiant le Code d’instruction criminelle en vue de la réouverture de la procédure en matière pénale», entrerà in vigore il 1° dicembre 2007 e sarà applicabile anche ai casi pregressi.

Si prevede che, in presenza di una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha constatato una violazione alla relativa convenzione, può essere chiesta la riapertura della procedura che ha condotto alla condanna del ricorrente o alla condanna di un’altra persona per lo stesso fatto e fondata sugli stessi mezzi di prova. La domanda, che può essere presentata anche dal P.M., deve essere depositata entro 6 mesi dalla data in cui è divenuta definitiva la sentenza della Corte europea ed è valutata dalla Corte di cassazione. La legge prevede che è disposta la riapertura allorquando sia accertato che «la decisione impugnata è contraria nel merito alla convenzione europea o quando la violazione constatata dalla Corte europea è la conseguenza di errori di procedura così gravi da rendere serio il dubbio

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sui risultati della stessa procedura, e il condannato continui a soffrire per le conseguenze negative molto gravi che solo una riapertura può riparare». La Corte di cassazione o annulla la sua precedente decisione, emettendo una nuova pronunzia, o rinvia il caso alla giurisdizione di merito, qualora sia stata giudicata non equa la procedura o la sentenza di merito.

Le esperienze accennate costituiscono una tendenza ormai consolidata, rispondente al fine comune di rendere effettiva la tutela del singolo, ma anche di uniformare le procedure interne. Di qui la necessità del presente disegno di legge e l’opportunità della scelta di affidare alla corte di cassazione la funzione di filtro.

L’intervento legislativo mira a modificare, attraverso la tecnica della novellazione, il codice di procedura penale, inserendo nel libro IX, dopo il titolo IV, il «Titolo IV-bis», e prevedendo, con l’articolo 1, una serie di disposizioni dopo l’articolo 647.

In particolare, con l’articolo 647-bis viene introdotto l’istituto straordinario della revisione della sentenza di condanna, allorquando la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia accertato, in maniera definitiva, la violazione di taluna delle previsioni di cui all’articolo 6, paragrafo 3, della Convenzione, in relazione ad un processo che sia stato celebrato nello Stato e semprechè tali violazioni abbiano assunto una rilevanza determinante ai fini dell’esito del processo. La collocazione sistematica con la previsione del nuovo «Titolo IV- bis» è diretta, da un lato, a confermare la natura straordinaria del rimedio; dall’altro, a tenere distinto l’istituto in esame dalla revisione della sentenza di condanna di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. E ciò per una serie di ragioni, la prima delle quali risiede nella non automaticità della rinnovazione dell’intero processo (come precisato nel successivo articolo 647-septies), quando vi sia stata una pronuncia della Corte di Strasburgo che abbia riconosciuto la c.d. iniquità del processo celebrato in Italia; automatismo che rimane, invece, connotato essenziale della revisione dell’attuale sistema processuale.

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L’articolo 647-bis, comma 2, lett. b), prevede un’altra condizione di ammissibilità della domanda di revisione: il condannato, al momento della presentazione della richiesta di revisione, si deve trovare o deve essere posto in stato di detenzione ovvero essere soggetto all’esecuzione di una misura alternativa alla detenzione, diversa dalla pena pecuniaria. Tale formulazione è necessaria, alla luce della raccomandazione R (2000) 2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, richiamata da tutte le successive raccomandazioni e risoluzioni del medesimo organo, secondo la quale la riapertura del processo è condizionata a due circostanze: 1) la sussistenza di una grave violazione della Convenzione, tale da «far seriamente dubitare sul risultato del procedimento interno contestato»; 2) la permanenza, per il condannato, «di conseguenze giuridiche molto gravi a causa della decisione nazionale, conseguenze che non possono essere compensate dall’equo indennizzo».

L’articolo 647-ter indica i soggetti legittimati alla presentazione della richiesta di revisione del processo, che sono il condannato o il procuratore generale presso la corte di cassazione.

L’articolo 647-quater disciplina i requisiti della istanza, stabilendo che essa può essere presentata personalmente o per mezzo di un procuratore speciale e deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione specifica delle violazioni riscontrate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e della loro determinante incidenza sul processo. Il comma 2 prevede il termine di tre mesi entro il quale la richiesta deve essere depositata, a pena di inammissibilità; il dies a quo decorre dalla data in cui la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è diventata definitiva. I soggetti legittimati a presentare la richiesta la devono corredare di una copia autentica della sentenza definitiva della Corte di Strasburgo.

Il procedimento di adozione, comunicazione e pubblicazione delle sentenze è il seguente:

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• la Corte invia alle parti, circa dieci giorni prima, una lettera con la quale preannuncia la imminente adozione della sentenza, indicando anche la data (futura) della pronuncia e della “pubblicazione” sul sito internet (HUDOC) della stessa Corte (le due date coincidono);

• il giorno prefissato, la sentenza viene inserita nel sistema informatico e diviene disponibile a chiunque; contemporaneamente, la Corte ne invia una copia certificata conforme a ciascuna parte; la copia cartacea può quindi pervenire ai destinatari con qualche giorno di ritardo, ma ciò non ha importanza, perché essi sono stati avvertiti in precedenza della data di «deposito» e possono consultare la sentenza su internet; peraltro, la sentenza non è ancora definitiva;

• normalmente, la sentenza diviene definitiva dopo tre mesi; questo termine si può allungare se, all’ultimo momento, una delle parti chiede il rinvio alla Grande Camera (perché in tal caso la sentenza non diverrà definitiva fino a quando il Comitato che filtra tali richieste non si sarà pronunciato negativamente);

• quando la sentenza diviene definitiva, le parti vengono avvertite con lettera della Corte e la definitività della sentenza viene iscritta sul frontespizio.

Il comma 3 completa la disciplina della presentazione della richiesta di revisione, prevedendo che quella presentata dal condannato debba essere sottoscritta, a pena di inammissibilità, da difensore iscritto nell’albo speciale degli avvocati patrocinanti in cassazione.

Si è, in tal modo, inteso attribuire alla corte di cassazione (così come avviene nel sistema francese) la funzione di filtro delle istanze di revisione; e ciò all’evidente scopo di concentrare nell’organo giurisdizionale di legittimità, avente funzioni di nomofilachia, le delicate decisioni sull’ammissibilità dell’istanza.

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L’articolo 647-quinquies fissa i casi in cui l’istanza di revisione deve essere dichiarata inammissibile, stabilendo che la corte di cassazione deve decidere, con ordinanza, entro trenta giorni dal deposito della richiesta. Se l’istanza viene dichiarata ammissibile, la corte di cassazione trasmette gli atti alla corte d’appello del distretto individuato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale. Le ordinanze sull’ammissibilità sono inoppugnabili. Attraverso l’articolo 647-sexies si è inteso dettare la disciplina volta ad evitare il perpetuarsi del corto circuito finora registrato, attribuendo alla corte d’appello il potere di decidere, entro venti giorni dalla ricezione degli atti – osservando le forme dell’incidente di esecuzione – la sospensione dell’esecuzione della pena; e ciò quando abbia ravvisato che da tale esecuzione possa derivare una ingiusta detenzione. Tuttavia, se rimangono i presupposti che suggeriscono di mantenere in stato di detenzione il soggetto che dovrebbe essere scarcerato, l’eventuale protrazione della permanenza in vinculis avviene a titolo di custodia cautelare con l’applicazione di una delle misure coercitive previste dagli articoli 281, 282, 283, 284 e 285. A tali misure coercitive, in ossequio ai principi sanciti dall’articolo 13 Cost., si applicano i termini di custodia cautelare di cui all’articolo 303, comma 1, lett. d), primo periodo del codice di rito, ma in nessun caso tali termini potranno essere superiori alla entità della pena inflitta. Si è previsto pure che, in caso di inottemperanza ad una delle misure disposte in via cautelare, la relativa ordinanza applicativa viene revocata e riprende la esecuzione della pena. L’articolo 647-septies disciplina il procedimento di revisione, precisando che si procede alla rinnovazione dei soli atti ai quali si riferiscono le violazioni accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e delle sole prove ritenute assolutamente indispensabili, ferma restando la validità ed utilizzabilità ai fini della decisione di tutti gli altri atti processuali compiuti. Viene altresì precisato che, durante il giudizio di revisione, i termini di prescrizione del reato restano sospesi.

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Con l’articolo 647-octies si richiama l’applicabilità di tutte le altre disposizioni in tema di revisione delle sentenze di condanna di cui agli articoli 629 e seguenti del codice di procedura penale. Con l’articolo 2 del disegno di legge viene introdotto l’articolo 201-bis delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, che prevede gli adempimenti delle autorità governative italiane, allorquando il Presidente del Consiglio dei ministri abbia ricevuto una sentenza della Corte di Strasburgo con la quale è stato dichiarato iniquo un processo. La Presidenza del Consiglio dei Ministri, in particolare, deve inoltrare la predetta sentenza in copia al Ministero della giustizia, il quale, dispostane la traduzione, la trasmette al procuratore generale presso la corte di cassazione, uno dei soggetti legittimati alla presentazione dell’istanza di revisione.

L’articolo 3 detta norme transitorie, precisando che per le sentenze già pronunciate dalla Corte di Strasburgo prima della entrata in vigore della legge in esame, l’istanza di revisione ai sensi dell’articolo 647-bis del codice di procedura penale debba essere presentata entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Sul punto si osserva che da un monitoraggio effettuato presso la Direzione Generale del Contenzioso e dei diritti umani presso il Dipartimento degli affari di giustizia, alla data del 21 maggio 2007 sono dieci le sentenze pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia, in occasione delle quali è stata accertata la violazione di norme sull’equo processo.

L’articolo 3, comma 2, prevede, inoltre che, decorso inutilmente tale termine di tre mesi, la sentenza di condanna la cui esecuzione sia stata sospesa dal giudice a seguito di pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, viene posta in esecuzione. La norma transitoria è diretta a colmare la lacuna normativa segnalata, prevedendo lo stesso termine di tre mesi di cui al primo comma, entro il quale devono presentare la domanda di revisione coloro che hanno già ottenuto dal giudice nazionale la declaratoria di illegittimità del titolo esecutivo (come nel caso Dorigo), per effetto della sentenza della Corte

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di Strasburgo che abbia accertato la natura iniqua del processo celebrato in Italia. Sicchè, nei confronti di costoro, l’inutile decorso di tale termine ha come conseguenza quella far riprendere l’efficacia del titolo esecutivo. L’articolo 4 reca la clausola di invarianza della spesa. Come si evince, infatti, dalla nota dell’Ufficio di bilancio del 24 maggio 2007, tale strumento straordinario di revisione non è destinato a produrre effetti rilevanti sull’attività degli uffici giudiziari interessati, né particolari effetti di natura finanziaria. E ciò anche alla luce dell’esiguità dei casi (solo 10) rilevati negli ultimi anni. Sicché, trattandosi di attività rientranti nell’ambito di quelle già svolte dai competenti uffici giudiziari e amministrativi, esse possono essere ampiamente fronteggiate con le risorse finanziarie, umane e strumentali previste a legislazione vigente.

L’articolo 5 prevede che la legge entri in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.