Due casi di detenzione ingiusta breve, dove l’indennizzo massimo fissato dalla legge è di 516mila euro. Ma nella maggior parte delle storie il risarcimento è risibile.
Bastava una telefonata in lingua russa, per capire che lui, con quella storia del riciclaggio di denaro sporco legata anche al terrorismo ceceno, non c’entrava proprio nulla. Per capirlo, ci sono voluti quattro giorni, quasi cento ore passate in cella per Luciano Montagnani, protagonista di un caso di ordinaria ingiustizia avvenuto nel 2002. Emblema di quella detenzione ingiusta breve, dove si finisce dietro le sbarre per poco, ma si tratta pur sempre di uno choc, di un trauma che segna per sempre la vita di un uomo.
In questi casi, l’indennizzo da ingiusta detenzione, che non ha nulla a che fare con il risarcimento da danno esistenziale, è legato a un calcolo aritmetico che stabilisce una sorta di tariffario giornaliero per le ore passate in cella. Poco più di 234 euro al giorno, che per Montagnani, cugino del celebre attore Renzo di ‘Amici Miei’, sono diventate 936 euro. Meno di mille euro per un errore che ancora oggi Luciano ricorda con tristezza e disagio. La sua vicenda giudiziaria, racconta il suo legale, Antonio Petroncini, vicepresidente dell’Associazione vittime errori giudiziari ‘Art.643’, pende ancora in Cassazione: “Quello di Luciano Montagnani è un caso di scuola: 4 giorni dopo l’arresto – racconta il legale – il Gip lo scarcera, ma l’impatto sulla sua vita è traumatico, anche per il rilievo mediatico che assume. E solo dopo anni la sua posizione viene archiviata con la certezza che con quella vicenda non ha nulla a che fare. Montagnani presenta ricorso alla Corte d’Appello di Bologna, che poi viene respinto, contro il modesto indennizzo da ingiusta detenzione che gli viene riconosciuto, meno di 940 euro, sostenendo che il calcolo aritmetico è solo uno dei criteri da usare nella liquidazione del danno”. Infatti, spiega Petroncini, diverso è il caso del risarcimento dell’errore quando la vittima ha passato pochi giorni in carcere, a volte addirittura qualche ora, rispetto a chi subisce una detenzione lunga dopo aver avuto una condanna definitiva. In quest’ultimo caso, non ci sono limiti alla somma dell’indennizzo. Se invece la privazione della libertà è breve, e l’indagato viene assolto nel corso del processo, o la sua posizione viene archiviata, fa notare, “viene stabilito un tetto massimo di 516mila euro. Ma non è detto che chi abbia passato poco tempo in cella abbia patito meno di altri, soprattutto se si tratta come in questo caso, di persona incensurata che nulla ha a che fare con l’ambiente del carcere”.
Si assiste così, a un’ingiustizia nell’ingiustizia, prosegue il vicepresidente di Art.643, perchè “si realizza una disparità di trattamento, a livello di indennizzo, tra chi ha subito una detenzione breve e chi, condannato in via definitiva, passa in carcere più tempo e non incontra limiti nel risarcimento. Ma qui è il legislatore che deve intervenire, perchè le detenzioni brevi danno luogo spesso, come nel caso di Montagnani, a riparazioni risibili”. Non solo, l’indennizzo riguarda solo il tempo passato dietro le sbarre, che nulla ha a che vedere con il risarcimento da danno esistenziale, che comprende il danno all’immagine, o lo choc subito dalla vittima. “E’ un meccanismo freddo ma vero: va considerato che il danno all’immagine o nei rapporti sociali e familiari – spiega Petroncini – è diverso se uno è soltanto indagato da quando si viene arrestati. Il grado di percezione della gravità dell’accaduto è diversa”. Ecco il motivo del ricorso in Cassazione, dove la difesa di Montagnani sostiene che “nelle detenzioni brevi ci si deve discostare dal criterio aritmetico. Già la Suprema Corte – rileva l’avvocato – si è pronunciata sul fatto che va bene come criterio guida. L’unico limite invalicabile resta quello del tetto massimo di 516mila euro previsto. Ma nei casi di carcere breve o brevissimo, questo limite deve essere superato. A livello popolare comunque, comincia a passare il concetto che essere accusati non vuol dire necessariamente essere colpevoli. Un principio che tende a venire meno quando scatta l’arresto”.
E così è stato per Montagnani, che, accusato di essere un ‘mediatore’ tra l’Italia e la mafia russa nel riciclaggio di denaro sporco, e incastrato da una semplice telefonata che poteva essere analizzata con maggiore cura, è stato dietro le sbarre per 4 lunghi giorni. I racconti di Luciano del mondo dietro le sbarre sono crudi, ma anche struggenti. Dal suo arrivo in carcere, dove viene trattato “come il peggiore degli assassini”, alla prima notte da solo in una cella dove non c’è neanche la luce in bagno, all’umanità degli otto giovani detenuti che lo trattano con rispetto dandogli subito l’appellativo di ‘zio’: “Entro nella cella di nove posti, con tre letti a castello a tre piani. Mi vengono incontro dei ragazzi – racconta Montagnani – il piu’ grande avrà avuto 30 anni. Subito si presentano e poi si mettono a confabulare fra di loro per cambiare i posti letto in modo da non farmi dormire al piano piu’ alto, cosa che mi avrebbe senz’altro creato un gran disagio. Liberano per me un posto al pian terreno e poi uno di loro prende dal mio sacco le lenzuola e si mette a rifarmi il letto con gli altri. Sono stupito da tanto calore umano, che contrasta con il trattamento avuto la notte precedente”. Da quel momento Luciano ha una visione diversa delle cose, si sorprende di come il pregiudizio peggiore avvolga il carcere. E invece, nella società, basta un’accusa, anche ingiusta, per cambiare la propria vita: Montagnani era un assistant buyer, il suo compito era portare il cliente straniero a comprare dagli stocchisti; ma l’arresto gli ha fatto perdere il lavoro. “Bastava indagare meglio sulla mia attività e sulla mia vita – conclude Montagani – per capire che ero innocente”. Ma l’ordinaria ingiustizia può colpire chiunque, ed è sempre in agguato. Lo sa bene Domenico Di Domenico, protagonista di un altro caso di detenzione breve, raccontato dal suo avvocato Andrea Maria Agostinucci, tra i legali di ‘Art.643’: il 23 agosto del 2004, dopo aver trascorso una piacevole serata d’estate, Di Domenico viene fermato da due poliziotti per fargli una contravvenzione. L’uomo chiede garbatamente di inserire delle osservazioni nel verbale, richiesta a cui i due agenti rispondono con l’arresto. “Lo sbattono in una camera di sicurezza per tutta la notte – racconta il legale – lo percuotono, gli sequestrano la macchina dopo avergli ritirato la patente. La mattina successiva, lo portano al Tribunale penale per processarlo per direttissima, contestandogli le accuse più assurde, quali quelle di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, detenzione di arma da taglio e guida in stato di ebbrezza”. Dalla vicenda penale, fortunatamente, Di Domenico ne esce assolto con formula piena e quella sentenza, nella sua motivazione, “accanto al riconoscimento della totale estraneità ai fatti e la totale insussistenza di uno stato di ebbrezza alla guida contestatigli dai due poliziotti – fa notare Agostinucci – presenta un autorevole ed aspro atto di accusa proprio contro i due agenti a cui viene inflitta una condotta di abuso, sopruso e deliberata intenzione di eccedere dai limiti delle loro attribuzioni”. E, nel caso di Di Domenico, l’indennizzo da ingiusta detenzione chiesto attraverso un procedimento in Corte d’Appello, è “comunque commisurato – fa notare il legale – alla gravità della condotta posta in essere dai due pubblici ufficiali in pregiudizio di un inerme cittadino riconosciuto innocente da tutti i reati contestatigli pretestuosamente e falsamente da costoro. Duemila euro per 10 ore di privazione della libertà personale. Attendiamo invece ancora la sentenza d’Appello del ricorso che abbiamo presentato per il risarcimento del danno esistenziale, ricorso che è stato rigettato in primo grado e che è costato all’uomo il pagamento delle spese legali di tutti i poliziotti, per un totale di circa 12mila euro”. Come dire, oltre il danno la beffa.
Carcere “lampo”, e la vittima attende invano il riconoscimento del danno esistenziale
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